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SWAMI VIVEKANANDA 

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«OH FIGLI DELL'IMMORTALITÀ! SVEGLIATEVI, ALZATEVI, E NON FERMATEVI FINO A QUANDO NON AVRETE RAGGIUNTO LA META!»​

Swami Vívekananda (1863-1902) fu il principale discepolo di Sri Ramakrishna Paramahansa. Nel suo paese è considerato il santo-patriota che ha ispirato il rinascimento spirituale dell'India. Fu il primo grande saggio-yogi ad andare in America come ambasciatore spirituale dell'India. Operò per favorire una migliore comprensione tra Oriente e Occidente, per creare un mondo migliore che riunisse il meglio della religiosità orientale e della razionalità e dell'efficienza scientifica occidentale. Come mistico, Vivekananda aveva l'esperienza diretta e intuitiva della Realtà. La sua tendenza naturale era quella di trascendere il mondo e perdersi nella contemplazione dell'Assoluto. Vi era però un'altra parte della sua personalità che sanguinava alla vista delle sofferenze umane. Per questo — in obbedienza al comando del suo guru e della Madre Divina — dedicò la sua vita al servizio dell'umanità, svolgendo in pochi anni una mole di lavoro impressionante.

BIOGRAFIA | Svámi Vivekànanda (1863-1902), il cui nome di famiglia era Narendranáth Dutta, nacque nel 1863 figlio di Bisvanàth, un noto avvocato di Calcutta, e di Bhuvanesvari Devi, una donna di grande intelligenza e devozione. Bisvanáth era solito intrattenersi in erudite conversazioni con clienti e amici su argomenti di politica, religione e problemi sociali. Egli sollecitava il figlio a prendere parte a tali eventi e ad esprimere la sua opinione in merito all'argomento trattato. Narendra, per nulla intimidito, diceva ciò che gli sembrava giusto portando anche argomenti a sostegno delle proprie idee e punti di vista. Alcuni amici di Bisvanàth non gradivano la presenza del ragazzo anche per il fatto che avesse l'ardire di parlare di questioni che riguardavano gli adulti. Il padre comunque lo incoraggiava e Narendra ribatteva alle obiezioni osservando: «mostratemi pure dove sbaglio, ma per quale motivo dovreste opporvi alla libera espressione del mio pensiero?»

Narendra imparò l'Epica e i Purána dalla madre che era molto abile nel raccontare le favole. Dalla madre egli ereditò, fra molte altre qualità, la memoria e infatti le doveva molto, come egli stesso avrebbe successivamente riconosciuto.
Narendra era davvero poliedrico. Sapeva cantare, riusciva molto bene nello sport, aveva la battuta pronta, una vasta conoscenza, una mente razionale e un grande senso di solidarietà verso la gente. Aveva doti naturali di comando ed era molto ricercato dalla gente grazie alle sue qualità.

Superò gli esami di ammissione presso il Metropolitan Institution e gli esami F. A. e B. A. presso il General Assembly's Institution (ora chiamato Scottish Church College). Il Rettore del College rimase colpito dalle intuizioni filosofiche di Narendra e fu proprio dal Rettore che egli sentì per la prima volta parlare di Ramakrishna.

Quale studente di filosofia, il problema dell'esistenza di Dio occupava insistentemente i suoi pensieri. Esisteva un Dio? In questo caso, che aspetto aveva? Che tipo di rapporti avevano con Lui gli uomini? Questo mondo, con le sue molteplici anomalie, era una sua creazione? Affrontò questi problemi con molte persone ma nessuno riuscì a dargli risposte soddisfacenti. Si mise allora alla ricerca di persone che potevano affermare di aver visto Dio ma non ne trovò.

Intanto Keshab Sen era diventato capo del Movimento Brahmo; egli era un grande oratore e molti giovani, attratti dalla sua oratoria, si erano iscritti al Brahmo Samaj. Anche Narendra si iscrisse e per qualche tempo quello che gli veniva insegnato lo soddisfece. Ben presto, però, incominciò a sentire che, per quanto riguardava la spiritualità, l'insegnamento non riusciva ad arrivare al nocciolo della questione. Un suo congiunto gli andava consigliando di visitare Ramakrishna a Daksinesvar assicurandogli che avrebbe risolto tutti i suoi dubbi riguardanti la religione. Lo incontrò invece per caso nell'abitazione di un vicino ma non ci è dato di sapere quale fosse l'impressione che Ramakrishna produsse nella mente del giovane. Egli comunque invitò Narendra a Daksinesvar a visitarlo quando lo avesse voluto. I giorni passavano e Narendra diventava sempre più irrequieto sui vari enigmi che la religione gli presentava. In particolare, egli voleva incontrare qualcuno che potesse parlare di Dio con l'autorità di un'esperienza personale. Si recò infine da Ramakrishna e gli chiese senza mezzi termini se aveva visto Dio. Ramakrishna rispose affermativamente e aggiunse che se Narendra lo avesse voluto avrebbe potuto anche mostrarglielo. Com'era naturale, la risposta lo colse di sorpresa, ma non sapeva se prenderla sul serio perché, malgrado fosse rimasto impressionato dalla semplicità e dall'amore verso il Divino dimostrati da Ramakrishna, le proprie idiosincrasie gli facevano sospettare che fosse un "fissato". Iniziò così ad osservarlo attentamente e continuò per un lungo periodo di tempo finché non ebbe più dubbi: Ramakrishna era davvero un essere straordinario, in grado di esercitare su se stesso il più completo dominio. Non gli era mai capitato di incontrare prima d'allora un uomo di tal fatta. Inoltre, egli era la migliore espressione di ogni verità spirituale da lui predicata. Narendra ammirava e amava Ramakrishna, e tuttavia non rinunciò mai alla propria indipendenza di giudizio. D'altra parte Ramakrishna, e ciò riveste un interesse particolare, non pretese mai tale rinuncia né da lui né da qualsiasi altro discepolo. Malgrado ciò, gradatamente Narendra giunse ad accettare Ramakrishna come suo Maestro.

Ramakrishna venne colpito da cancro e nel 1886 lasciò la sua spoglia mortale. Durante la sua malattia un gruppo di giovani scelti, di cui Narendra era il capo, si era formato e aveva cominciato a prendersi cura di lui ricevendone la guida spirituale. Ramakrishna aveva voluto che essi seguissero la vita monastica e aveva simbolicamente dato loro la veste color ocra (garua). Seguendo tale indicazione essi fondarono un monastero a Baranagar e iniziarono a vivere insieme chiedendo il cibo in elemosina per il proprio sostentamento. Ogni tanto andavano in giro come altri monaci itineranti. Anche Narendra viaggiava e fu durante uno di questi viaggi che prese il nome di Svámi Vivekánanda.

Vivekánanda viaggiò diffusamente per tutta l'India, a volte in treno, altre a piedi. Egli rimase dolorosamente colpito dalle condizioni in cui versava l'India rurale, una popolazione ignorante, superstiziosa, denutrita e vittima della tirannia di casta. Ma ancor più venne colpito dall'indifferenza delle classi della cosiddetta borghesia benestante e istruita. Nel corso dei suoi viaggi incontrò molti principi dai quali veniva invitato come ospite. Incontrò anche molti appartenenti alla classe colta delle città: avvocati, insegnanti, giornalisti, e funzionari governativi. A tutti costoro egli rivolse un accorato appello a fare qualcosa per le masse, ma nessuno sembrò dargli ascolto a eccezione del maháraja del Mysore, del maharaja di Khetri e alcuni giovani di Madras. Svàmi Vivekànanda fece comprendere loro la necessità di mobilitare le masse. Gli intellettuali, uomini e donne, non sarebbero stati in grado di risolvere i problemi del Paese; per un'impresa di questo genere occorreva imbrigliare e dirigere la potenza della massa che pertanto doveva ricevere un'istruzione. Il mahàraja del Mysore fu tra i primi a rendere gratuita l'istruzione elementare nel suo regno ma ciò, secondo il punto di vista di Svamiji, non era affatto sufficiente. Un contadino non poteva permettersi di mandare i figli a scuola in quanto aveva bisogno del loro aiuto nei campi. Era quindi imperativo portare la scuola nelle case dei contadini in modo che i loro figli potessero lavorare e studiare nello stesso tempo. Forse aveva in mente un tipo di istruzione "non formale"; le sue lettere al maharaja del Mysore dimostrano quanto avesse riflettuto su tale questione e con quanta originalità.

Altri principi, e la classe colta nel suo insieme, erano colpiti dalla personalità di Svamíjí ma erano troppo presi dai loro interessi personali per prestare attenzione ai suoi appelli. Alcuni giovani di Madras, e specialmente Perumal, si dedicarono agli ideali proposti da Svamiji e il loro contributo per il successo della sua missione fu rilevante. Non era difficile per Svámiji comprendere perché coloro che potevano influire sulle opinioni della società lo ignorassero. Non era che un semplice monaco itinerante, e nel Paese ve n'erano a centinaia. Perché mai avrebbero dovuto prestare una particolare attenzione proprio a lui? Essi in genere seguivano solo i pensatori occidentali e quegli Indiani che avevano ottenuto dei riconoscimenti dall'Occidente perché ne condividevano il pensiero. Era una mentalità servile, ma questo era l'atteggiamento caratteristico degli intellettuali indiani su quasi tutti i problemi. Vedere i suoi connazionali procedere impettiti nei loro abiti di foggia occidentale, imitando mode e costumi occidentali come se fossero dei veri occidentali, addolorava Svámiji. Più tardi si sarebbe rivolto alla Nazione in questi termini: «Siate fieri di essere Indiani anche quando doveste portare dei semplici perizoma». Egli non era contrario a imparare dall'Occidente perché ne riconosceva le qualità grazie alle quali il paese era diventato ricco e potente. Voleva che l'India imparasse la scienza e la tecnologia dall'Occidente insieme alla sua capacità organizzativa e al suo senso pratico ma, al tempo stesso, che conservasse inalterato il proprio elevato ideale morale e spirituale. L'egoismo delle persone della cosiddetta classe colta lo faceva soffrire ancora di più. Si contentavano di badare al proprio benessere, indifferenti a ciò che capitava agli altri. Svámiji voleva attirare la loro attenzione sulle misere condizioni in cui versava la massa: analfabeta, sempre al limite della sopravvivenza, superstiziosa e vittima dell'oppressione delle caste superiori e dei ricchi proprietari terrieri.

Quando Svámiji arrivò a Madras i giovani gli si raccolsero intorno attratti dalla sua luminosa figura e dai suoi ispirati discorsi. Essi lo pregarono di recarsi negli USA e partecipare, in rappresentanza dell'Induismo, al Parlamento delle Religioni che si sarebbe tenuto di lì a poco a Chicago. E a tale scopo cominciarono anche a raccogliere fondi. Sulle prime Svámiji fu riluttante ma poi si convinse che qualcosa di buono poteva venir fuori da una sua visita in Occidente; infatti, se avesse potuto in qualche modo suscitare interesse, i suoi connazionali, che giudicavano una cosa buona o cattiva in base a ciò che ne pensava l'Occidente, lo avrebbero ascoltato con maggiore rispetto. Le cose andarono proprio così: Svámiji fece un'enorme impressione prima negli Stati Uniti e poi anche in Inghilterra. La stampa gli tributò grandi riconoscimenti quale esponente dei valori tradizionali dell'India. E in India egli divenne in un batter d'occhio un eroe nazionale. Improvvisamente tutti si accorsero del fatto che doveva esserci qualcosa nel pensiero indiano che gli intellettuali occidentali sentivano di dover ammirare. Lentamente ma inevitabilmente cominciarono a rivedere le proprie convinzioni sul proprio paese e sulla sua civiltà. Cominciarono a sospettare che dopo tutto non erano così arretrati come avevano creduto e che anzi, in campi come la religione, la filosofia, l'arte e la letteratura, erano anche più progrediti degli occidentali. Si erano sempre commiserati, ma ora, per la prima volta, prendevano consapevolezza della ricchezza della loro eredità: era l'inizio del Rinascimento indiano di cui si sente parlare. Molti sono stati i capi di Stato nazionali, a cominciare da Tilak, che hanno tratto ispirazione da Svámi Vivekánanda e che tramite lui hanno "scoperto" l'India, i suoi punti di forza e i suoi punti deboli. «Se vuoi conoscere l'India, studia Vivekánanda» era il consiglio che Tagore dava a Romain Rolland, un consiglio tuttora valido perché nessuno ha mai studiato l'India così a fondo come ha fatto Svámiji.

Egli denunciò lo stato di abbandono in cui si trovavano le masse come una grave macchia nazionale. Un'altra macchia, secondo lui, era lo stato della donna priva di adeguate provvidenze. Il sistema delle caste, nella sua attuale forma, era una terza macchia. Il pluralismo etnico e religioso non rappresentavano per lui un problema serio in quanto l'India aveva sempre cercato la propria unità nell'amore e nel rispetto verso tutte le diverse dottrine e comunità. Vedeva con favore il sorgere del socialismo sia per l'India che per il resto del mondo. I sudra, vale a dire il proletariato, avrebbero conquistato il potere e al fine di assicurare un pacifico passaggio di poteri egli chiese ai bráhmana, cioè agli intellettuali, di facilitarlo il più possibile. Onde evitare che un declino culturale potesse seguire a questo passaggio cercava di diffondere nel paese in un'atmosfera spirituale.

Svamiji sperava che l'India potesse dare origine a un nuovo ordine sociale e una nuova civiltà mettendo insieme le sue più elevate tradizioni spirituali con le più recenti scoperte scientifiche e tecnologiche; sarebbe così stata ricca sia materialmente che spiritualmente. Sapeva che la ricchezza non era tutto, l'uomo doveva essere anche umano e in questo voleva che l'India potesse dare l'esempio.

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