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«Il termine stesso di ricerca prova che il ricercatore si considera lui stesso separato dall'oggetto della sua ricerca. [...] Finché questa dualità persiste, la ricerca deve essere continuata fino al momento in cui l'individualità non sia sparita e che il Sé sia stato realizzato come Essere Eterno, e che contenga ricercatore e ricerca».
Venkataramam "Ramana Maharshi" (30 dicembre 1879 - 14 aprile 1950) è stato un santo indiano, un Grande asceta che raggiunse la Realizzazione, ed un maestro dell’Advaita Vedanta del XX secolo. È uno dei saggi più celebrati in India.
AI contrario di molti altri Grandi Esseri, egli raggiunse la Piena Realizzazione del Sé molto precocemente, a soli 17 anni, senza seguire nessuna disciplina spirituale o istruzioni ardue e prolungate. Così lasciò la propria casa e partì improvvisamente ai piedi del monte Arunachala - nelle vicinanze della città di Tiruvannamalai, a circa 193 km a Sud Ovest da Madras - uno dei luoghi più sacri dell'India, dove si stabilizzò fino alla sua morte. Lì incominciò una vita di contemplazione e per 17 anni visse in una grotta che ben presto divenne meta di pellegrinaggi.
Conosciuto come Sri Ramanasramem, insegnò l'Advaita Vedanta, la via della non-dualità, traducendo gli scritti dal sanscrito al tamil e molte opere di Shankara. Dimostrò sempre un'equanimità esemplare. Ricevette chiunque per un darshan silenzioso. Rispose piuttosto raramente alle domande che gli furono poste, me sempre in modo significativo e quando ritenne fosse davvero utile.
Morì il 14 Aprile 1950. In quel momento una cometa che fu vista in tutta l'India attraversò lentamente il cielo, raggiunse le sommità della collina sacra, Arunachala, e scomparve dietro di essa.
LA SUA REALIZZAZIONE | Di seguito riportiamo la Sua testimonianza di quando raggiunse l'illuminazione, tratta dal libro "Self-Realization" (Ch. 5 di 8. V. Naresimhaswami). «Fu circa sei settimane prima che lasciassi per sempre Madurai che avvenne il cambiamento nella mia vita. Fu assolutamente improvviso. Un giorno sedevo da solo al primo piano della casa di mio zio. La mia salute era buona, come sempre. Raramente avevo qualche malattia. Dormivo molto pesantemente. Quando ero a Dindigul nel 1891, molte persone si raccolsero davanti alla stanza nella quale dormivo e cercarono di svegliarmi gridando e battendo alla porta, ma invano, e fu solo entrando nella mia camera e dandomi un violento scossone che fui destato dal mio torpore. Questo sonno pesante era tuttavia una prova di buona salute. Ero anche soggetto ad attacchi di sonno semi-consapevole durante la notte. Me questi attacchi non mi rendevano più debole o meno adatto alla vita, e difficilmente potevano essere considerati una malattia.
Così quel giorno, mentre sedevo da solo, non c'era niente di strano nella mia salute. Tuttavia, mi prese un'improvvisa e un'evidente paura della morte. Sentii che stavo per morire. Perché avrei dovuto sentire una cosa del genere? Non poteva essere giustificato da niente di quello che sentivo nel corpo. E nemmeno fui in grado di spiegarmelo, allora. Non mi diedi comunque pensiero di scoprire se la paura fosse fondata. Sentii "sto per morire" e immediatamente pensai a quello che dovevo fare. Non pensai a consultare dottori, o anziani, o nemmeno amici. Sentii che dovevo risolvere il problema da solo e subito.
Lo shock della morte mi rese immediatamente introspettivo, o "introvertito". Mi dissi mentalmente, cioè senza pronunciare le parole: "ora è arrivata la morte. Cosa significa? Cosa è che sta morendo? Questo corpo muore." Interpretai così le scena della morte. Distesi le membra e le tenni rigide come se fosse arrivato il rigor mortis. Imitai un cadavere per dare un'aria di realtà alla mie ulteriore investigazione. Trattenni il respiro e chiusi le bocca, serrando con forza le labbra di modo che non potesse uscire alcun suono. Non lasciai che le parola "io" o qualsiasi altra parola fosse pronunciata.
"Bene," dissi e me stesso, "questo corpo è morto. Sarà portato al campo di cremazione, bruciato e ridotto in cenere. Me con le morte del corpo, "Io" sono morto? Questo corpo è "Io"? Questo corpo è muto e inerte. Tuttavia sento le completa forza delle mia personalità, e anche il suono "Io" dentro di me, separato dal corpo. Così "Io" sono uno spirito, una cosa che trascende il corpo. Il corpo materiale muore, ma Io spirito che lo trascende non può essere toccato dalla morte. lo sono perciò lo spirito immortale." Tutto questo non era un semplice processo intellettuale, bensì balenò dentro di me come una verità lampante, qualcosa che percepii immediatamente e praticamente senza nessuna discussione. "Io" era qualcosa di reale, la sola cosa reale in quello stato, e tutta l'attività consapevole che era connessa con il mio corpo era centrata su quello. Da allora in poi "Io" o il mio "sé" rimase al centro dell'attenzione con un potente fascino. La paura della morte era svanita una volta per sempre. L'assorbimento nel Sé è continuato da quel momento fino ad oggi.
Altri pensieri possono andare e venire come le note di un musicista, ma l'"lo" continua come la fondamentale nota Sruti (ronzio) che accompagna e si fonde con tutte le altre note. Che il corpo fosse impegnato nel parlare, leggere o in qualunque altre cosa, "Io" è stato sempre centrato sull'"lo". Prima di quella crisi non avevo una chiara percezione di me stesso e non ne ero consciamente attratto. Non avevo sentito alcun interesse direttamente percepibile in esso, e ancor meno una qualche disposizione permanente a dimorarvi. Le conseguenze di questa nuova abitudine furono ben presto notate nella mia vita».
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